Alessandro Barbero: “Gli italiani, eroi e cialtroni”.

L’immagine è contraddittoria: “La caratteristica degli italiani che sta venendo fuori, di fronte all’emergenza del coronavirus, è la tendenza a muoversi in ordine sparso. Anche in questa tremenda situazione, vediamo eroi e cialtroni.

C’è chi rischia la pelle e chi ne approfitta. Ci sono quelli che si rimboccano le maniche e quelli che fanno i furbi. Non è una novità. È il modo in cui gli italiani si sono comportati anche nella Seconda guerra mondiale”.

All’ultima prova della storia a cui siamo chiamati a rispondere, dice Alessandro Barbero – ordinario di storia medievale presso l’Università del Piemonte Orientale e apprezzatissimo narratore storico (le sue lezioni online hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni) – noi italiani di oggi assomigliamo parecchio agli italiani di ieri.

“Se pensiamo a come si sono comportati nell’ultimo conflitto mondiale i tedeschi, i russi, gli americani, gli inglesi, ci rendiamo conto che, con certe ovvie eccezioni individuali, si sono mossi in maniera abbastanza compatta, tutti più o meno uniti nello stesso spirito di popolo.

L’Italia, invece, ha oscillato tra gli estremi. Abbiamo avuto, a tutti i livelli, esempi di incredibile impreparazione, mascalzonaggine e incapacità, che ci hanno portato a disastri militari per i quali ancora oggi tutto il mondo ci ride dietro. E abbiamo combattuto battaglie gloriose. Il popolo contadino ha dato prova di una forza di resistenza straordinaria.

Così come gli abitanti delle città bombardate. Il paese ha tenuto duro in circostanze spaventose. Distrutto, ridotto alla fame, spaventato. È riuscito a rialzarsi appena la guerra è finita. Nonostante l’incompetenza, la dabbenaggine, che pure ci sono state. Ecco: la situazione, oggi, non mi sembra così diversa”.

A chi pensa?

Penso ai medici e agli infermieri che lavorano giorno e notte negli ospedali. E penso a chi è fuggito da Codogno per andare a sciare. Penso a tutti quelli che rimangono chiusi in casa per proteggere se stessi e gli altri. E penso ai politici che, anche in questa situazione, cercano di ricavare un tornaconto elettorale, spingendosi fino al limite dello sciacallaggio.

Penso a chi ha messo i propri interessi in secondo piano, e penso agli imprenditori che guardano il crollo dei propri ricavi e devono tenere a bada – non sempre riuscendoci – la tentazione di dire: “Ma andiamo avanti lo stesso, se continuiamo così sarà un disastro per le nostre casse”.

Lo storico può scorgere nelle epidemie qualcosa di positivo?

All’inizio del Quattrocento, dopo la peste violentissima del 1348 e altre crisi epidemiche successive, il mondo si accorse che aveva risolto un problema. Nei primi anni del Trecento, c’erano troppe bocche da sfamare. Alla fine del secolo, era rimasta metà della popolazione.

C’era cibo per tutti. Gli operai potevano rivendicare salari più alti. Cominciavano a esserci soldi anche per il superfluo. E si misero in moto parecchie innovazioni benefiche per l’economia.

Certo, questo è quello che osserva uno storico, studiando un arco di tempo lungo. Mentre i contemporanei – nessuno dei quali aveva potuto vivere tutto il secolo – sperimentavano un altro sentimento: il dolore per le vite perdute.

Può succedere qualcosa del genere anche oggi?

La peste del Trecento cambiò radicalmente gli equilibri demografici mondiali. Il coronavirus non sembra possa fare niente del genere.

C’è chi dice, molto cinicamente: “Uccide i vecchi”.

Fin dagli anni cinquanta, gli scrittori di fantascienza americani hanno cominciato a immaginare un futuro nel quale l’uomo sarebbe stato messo di fronte a una scelta crudele: uccidere gli anziani, troppo costosi da mantenere, per salvare il sistema. In effetti, questo è l’incubo della nostra società.

E non mi sorprende che, in questa circostanza, il tema emerga. L’astratta ragione economica, di fronte alla decimazione dei vecchi, potrebbe dire: “Bene, d’ora in poi, avremo un costo in meno da sostenere”.

La ragione umana, invece, non può prendere in considerazione una conclusione del genere. Poiché dice: “Non è l’uomo che deve essere messo al servizio dell’economia, ma l’economia al servizio dell’uomo”. È il conflitto che avevano colto, nei loro romanzi avveniristici, quegli scrittori.

Non possiamo ricavarne niente di buono, quindi?

Una conseguenza positiva ci potrebbe essere. Nella mentalità collettiva, nel modo in cui concepiamo le cose. Siamo abituati a pensare che il futuro sia prevedibile.

Addirittura, gli economisti e i politici credono di poter misurare fino ai decimali quanto crescerà il nostro Prodotto interno lordo. Poi, un virus sconosciuto si diffonde in Cina e tutto ciò su cui basavamo le nostre scelte politiche, economiche e sociali, frana nel giro di qualche settimana.   

Perché la prima cosa a cui abbiamo pensato è la “peste”?

Peste è il nome che gli uomini hanno sempre dato alle malattie contagiose e mortali. Nella storia, si chiama ‘peste di Atene’ la malattia che colpì la città greca nel Quattrocento avanti Cristo.

‘Peste antonina’ l’epidemia che contagiò Roma nel Secondo secolo dopo Cristo, uccidendo anche l’imperatore Marco Aurelio. Sebbene, gli studiosi sappiano che non si trattava propriamente di peste. Probabilmente, era vaiolo. Soprattutto, nel secondo caso.

Oggi lo sanno tutti che non si tratta di peste.

Eppure, la parola “peste” è una parola che mobilita il nostro immaginario. Non si riferisce tanto al batterio che causa la malattia, ma alla paura della malattia indomabile che si è trasmessa fino a noi, seguendo una catena lunghissima di memorie.

Manzoni racconta che, quando la peste arriva a Milano, le autorità hanno paura di nominarla. Dicono: “Febbre, contagio”. Oggi succede la stessa cosa con la parola virus. Improvvisamente, un termine che fino a poche settimane fa usavamo in maniera disinvolta, ci terrorizza. L’altro giorno, alla radio, una conduttrice parlava di una fotografia.

Diceva: “L’avete vista tutti, è diventata…”. Stava per dire “virale” e si è bloccata. Era diventata una parola spaventosa.

In questi giorni, usiamo un’altra parola familiare per uno storico: la guerra. “Siamo in guerra”, si dice. È vero?

La guerra puoi scatenarla, oppure subirla: in ogni caso, hai di fronte una controparte. Con un virus, non puoi firmare un trattato di pace. Detto questo, un elemento in comune con la guerra c’è.

Qual è?

È che le autorità possono dire alla gente: “Mi dispiace, ma in questo momento i tuoi interessi personali passano in secondo piano. Ora, devi obbedire e sacrificarti in nome di qualcosa di più grande di te”.

Ma il sacrificio richiesto è paragonabile?

Ciò che lo stato italiano ci sta chiedendo ci appare enorme. Non possiamo più uscire a fare una passeggiata, né andare a cena fuori, e nemmeno raggiungere un amico a casa. Per un popolo che ha vissuto gli ultimi settant’anni della sua vita in pace, è una rinuncia gigantesca.

Tuttavia è poco, se paragonato a ciò che lo stato chiese al popolo italiano nel 1915. Quando chiamò tutti i maschi che potevano combattere e disse a ciascuno di loro: “Ora tu lasci la tua casa, tua moglie, i tuoi figli, il tuo lavoro e te ne vai a fare una vita da cane in trincea, dove puoi crepare dilaniato dalle ferite di una bomba, oppure – se ti va bene – farai una vita orrenda per anni.

E lo fai. Perché questo è un ordine”.

Vuol dire che stiamo esagerando?

Voglio dire che il parallelo con la guerra regge fino a un certo punto. Chiederci di rimanere a casa per sopravvivere è diverso dal ricevere l’ordine di andare al macello.

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