Dante va alla guerra!

Quando pensiamo alla figura di Dante Alighieri siamo soliti immaginarlo coronato d’alloro e avvolto dal “lucco”, il suo celebre lungo mantello rosso. Per noi, che lo ricordiamo soprattutto come poeta e letterato, o magari come uomo politico, può sembrare strano che il Sommo Poeta sia stato anche un uomo d’arme e un combattente.

Tuttavia l’esperienza della guerra segnò profondamente Dante che accennò alla sua esperienza di soldato persino nel suo capolavoro, la Divina Commedia, nella quale si fa menzione della battaglia di Campaldino, combattuta l’11 giugno 1289 ed alla quale l’allora ventiquattrenne Dante Alighieri prese parte inquadrato nella cavalleria fiorentina.

Lo scontro di Campaldino segnò la definitiva sconfitta della fazione ghibellina e di contro l’affermazione dell’egemonia guelfa sulla Toscana. La contrapposizione tra guelfi e ghibellini che tanto ha segnato il Medioevo italiano affonda le sue radici ad un secolo e mezzo prima di Campaldino, grosso modo all’epoca dello scontro fra l’Imperatore Federico Barbarossa e i Comuni dell’area padano-veneta riuniti nella Lega Lombarda.

Generalmente erano definiti “ghibellini” coloro i quali auspicavano il ripristino del potere dell’Imperatore, il quale giuridicamente era anche Re d’Italia. A costoro si contrapponevano invece i guelfi, che invece vedevano come fumo negli occhi qualunque ipotesi di restaurazione imperiale, appoggiati in questo dall’altro grande potere universale spesso in rotta con l’Imperatore, ossia il Papato.

Nella seconda metà del Duecento la coalizione guelfa andò accumulando continui successi sui rivali ghibellini, i quali nel 1266 persero il loro principale alleato, il Re di Sicilia Manfredi, figlio dell’Imperatore Federico II, che fu sconfitto e ucciso il 26 febbraio di quell’anno alla battaglia di Benevento dalle truppe francesi di Carlo d’Angiò, il quale poté così impadronirsi del Regno di Sicilia, forte dell’appoggio della Francia e della benedizione della Chiesa.

Due anni dopo, nel 1268, il principe sedicenne Corradino di Svevia, nipote di Manfredi, tentò di rientrare in possesso della corona persa dallo zio, venendo a sua volta sconfitto alla battaglia di Tagliacozzo, in Abruzzo. Il ragazzo, catturato dalle truppe angioine, finì decapitato sulla pubblica piazza a Napoli!

L’ultima disfatta ghibellina risaliva al 1269 e si era consumata alla battaglia di Colle Val d’Elsa, a seguito della quale anche Siena, da sempre ghibellina, finì per cambiare schieramento per unirsi alla lega guelfa. Ad opporsi allo strapotere guelfo in Toscana rimanevano ormai soltanto poche città come Pisa e Arezzo assieme ad alcune grandi casate feudali come quella dei Conti Guidi. Nel 1287 ad Arezzo la fazione guelfa aveva tentato di prendere il potere mediante un colpo di stato. Il golpe era tuttavia fallito per la reazione dei ghibellini.

I guelfi aretini trovarono rifugio a Firenze che a sua volta ingiunse ad Arezzo di riammettere in patria gli esiliati.

Gli aretini sapevano di essere più deboli dei fiorentini ma erano troppo fieri della loro indipendenza per piegarsi al diktat dei vicini. Nel tentativo di riportare la pace intervenne anche il Vescovo di Arezzo, Guglielmino degli Ubertini. Costui era un prelato di orientamento ghibellino, esponente di una nobile famiglia, abituato ad andare a caccia e a battersi in guerra se necessario tanto che, come ci racconta il cronista fiorentino Dino Compagni “El Vescovo di Arezzo sapea meglio gli uffici della guerra che della chiesa”.

Guglielmino tuttavia era ben consapevole che in caso di guerra lui sarebbe stato tra coloro che più ci avrebbero rimesso in quanto le sue proprietà e i suoi castelli, situati proprio a metà strada tra Arezzo e Firenze, sarebbero divenuti il campo di battaglia fra le forze belligeranti. Cercò così di mediare una pace con i fiorentini ma le trattative si arenarono per l’opposizione degli stessi aretini. Addirittura le cronache riferiscono come ad Arezzo si ventilò persino l’ipotesi di assassinare il Vescovo, ritenuto colpevole di tradimento.

Con la guerra ormai alle porte, dunque, Firenze e i suoi alleati si prepararono a combattere. Tutti i capitani e i cavalieri fiorentini più esperti tennero consiglio di guerra nel Battistero di San Giovanni assieme ai capi mercenari assoldati per l’occasione e ai comandanti dei contingenti alleati giunti a Firenze coi loro uomini dalle altre città guelfe della Toscana e della Romagna.

Si discusse a lungo sulla strada migliore da percorrere per marciare contro Arezzo e in particolare se fosse più saggio prendere la strada del Valdarno o quella del Casentino, che fu infine ritenuta l’opzione migliore. Non si era infatti ancora affermata l’idea che dovesse esserci un comando accentrato nelle mani di un solo condottiero.

Soffermiamoci ora un momento per descrivere la struttura e il funzionamento di queste armate comunali. Da chi erano composti questi eserciti? E com’erano armati? Cominciamo col dire che i componenti delle milizie comunali non erano soldati professionisti ma semplici cittadini i quali rispondevano alla chiamata alle armi in ossequio a quel principio secondo cui ogni uomo libero che facesse parte di una comunità fosse tenuto a difenderla in caso di guerra. 

Ecco che allora quando veniva indetta la mobilitazione, artigiani e commercianti chiudevano il laboratorio o la bottega per accorrere sotto le insegne del comune armati di picca e scudo (il cosiddetto “pavese”) oppure di balestra. Accanto ai fanti era schierata la cavalleria pesante, arruolata tra quei cittadini sufficientemente ricchi da potersi permettere l’acquisto di armi, armature e cavalli da guerra.

Figurino che ricostruisce l’abbigliamento e l’armamento di un fante comunale fiorentino del ‘200.

A differenza di quanto avveniva in altre regioni europee, come la Francia o la Germania, dove i cavalieri erano esponenti dell’aristocrazia terriera, nelle città italiane anche i borghesi più ricchi potevano aspirare ad essere armati cavalieri e ad essere ammessi nel patriziato urbano. 

Quelli che si affrontarono a Campaldino erano quindi due eserciti che potremmo definire “di popolo”, reclutati fra tutti i cittadini maschi del Comune in grado di portare le armi. Questo faceva sì che le armate comunali fossero generalmente animate da un fortissimo spirito di corpo in quanto composte da combattenti che generalmente si conoscevano già nella vita civile, che insieme si erano addestrati e avevano già combattuto più volte.

Esaminata la struttura delle milizie cittadine nell’Italia del XIII secolo, proviamo a seguire il percorso dell’esercito guelfo, partito da Firenze il 2 giugno al comando del condottiero francese Amerigo di Narbona. A quel punto anche gli aretini si misero in marcia per sbarrare la strada al nemico finché quel fatidico 11 giugno, giorno di San Barnaba, dell’anno del Signore 1289 i due eserciti si trovarono l’uno di fronte all’altro  nella Piana di Campaldino, non lontano dal castello di Poppi che tuttora domina il paesaggio circostante dall’alto della collina.

Se avessimo potuto sorvolare il campo di battaglia avremmo immediatamente notato la maggiore consistenza numerica dello schieramento guelfo, che contava 10 mila fanti e 1.300 cavalieri. Lo spettacolo offerto dalle milizie guelfe doveva essere qualcosa di impressionante tanto che il solito Dino Compagni ci racconta che il vescovo di Arezzo, che era miope, alla vista delle schiere avversarie chiese “E quelle che mura sono?” gli fu risposto che erano “i pavesi degli inimici”. 

I ghibellini erano certamente inferiori di numero, 8 mila fanti e 800 cavalieri in tutto, ma facevano affidamento sulla maggiore esperienza bellica dei loro combattenti, in gran parte soldati professionisti arruolati dai dai signori feudali delle Marche e della Toscana, che quindi risultavano senza dubbio meglio addestrati dei componenti delle milizie cittadine guelfe, che invece erano in gran parte mercanti e bottegai armati.

Proprio facendo affidamento sulla loro superiore abilità di combattenti i ghibellini scelsero di attaccare per primi lo schieramento guelfo che fu costretto ad arretrare sotto l’impeto degli avversari. Il centro indietreggiò mentre le ali tennero e contrattaccarono, richiudendosi sugli aretini e sui loro alleati che si erano spinti in avanti approfittando del varco apertosi nelle fila nemiche.

Dante si trovava in prima linea fra i feditori, ossia quei cavalieri che avevano il compito di ingaggiare per primi lo scontro con l’avversario venendo così coinvolto nella mischia furibonda rischiando seriamente di rimanere ferito o ucciso. Possiamo ben immaginare come il ventiquattrenne Dante in quel momento possa avere avuto paura che la faccenda potesse andare a finire molto male. In effetti il Sommo Poeta avrebbe confessato in una lettera scritta anni dopo la battaglia di avere avuto la tentazione di fuggire. Il documento è oggi andato perduto anche se sarebbe stato consultato ancora nel XV secolo dal suo biografo Leonardo Bruni (1370-1444).

La battaglia fu infine risolta a favore dei guelfi dalla carica risolutiva dei 300 cavalieri pistoiesi guidati dal loro podestà, il fiorentino Corso Donati, detto il Gran Barone. Costoro investirono il fianco dello schieramento aretino mandando definitivamente in rotta il nemico. Fuggendo i ghibellini lasciarono sul campo circa 1.700 caduti oltre a 2 mila prigionieri mentre i guelfi persero soltanto 300 uomini.

Rimasero uccisi anche tutti i principali comandanti ghibellini come il vescovo Guglielmino degli Ubertini, il Conte Guido Guidi ed il condottiero Bonconte da Montefeltro, il cui cadavere non fu mai ritrovato. Dante si mostrò rispettoso verso lo sfortunato avversario ricordando Bonconte nella Divina Commedia, nella quale racconta l’incontro con la sua anima nel Canto V del Purgatorio, ai versi 85-129. L’autore descrive l’anima di Bonconte girare contrita a testa bassa poiché i suoi cari e sua moglie Giovanna non pregano per lui né hanno pena del destino della sua anima.

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Alessandro Barbero
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